Il software e l’aperitivo

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Dopo due anni di incarico presso il dipartimento di Stato Americano, Anne-Marie Slaughter dichiara di essere stata costretta a tornare all’insegnamento universitario, non perché non amasse il suo lavoro o fosse stufa della politica, ma perché le era impossibile destreggiare la sua carica con le esigenze dei due figli teenager. Leggo la notizia sul Corriere della Sera del 23 giugno. Tre giorni dopo la presentazione del mio libro Ci vorrebbe una moglie. Il fatto che anche oltre oceano le donne siano costrette a fare dei passi indietro non è che mi consola. Testimonia che la ferita è aperta in ogni angolo del nostro pianeta e, soprattutto, che il mio ragionamento fila. Perché le donne non sono ai vertici delle organizzazioni, sono assenti in politica e nelle istituzioni? Non ci sono perché hanno altro da fare, perché sulle spalle delle donne ricade ancora in maniera preponderante tutto quel lavoro di assistenza e cura –che se sono sostantivi femminili ci sarà un perché– indispensabile perché l’istituzione famiglia, anche nelle sue più moderne e allargate sfaccettature, non coli a picco. Mi sono interrogata sul fenomeno, quello dell’assenza delle donne, partendo da me, dalla mia esperienza, pensando a quel che faccio ogni giorno, alle mie giornate. Mi ritengo un esempio autorevole perché so di cosa parlo. Non teorizzo senza avere sperimentato. Mi vien da dire che ho sperimentato forse anche troppo! Sono comunque un bel caso, certamente rappresentativo dei nostri giorni.

Un divorzio alle spalle – indispensabile per poter argomentare di gestione della complessità, nella vita e nelle relazioni –, due figli adolescenti –indispensabili per vivere tutte le giornate sempre con un’ansia ai livelli di guardia– e un lavoro imprenditoriale –fondamentale anche per quello per garantirsi un impegno senza orari–. Con giornate che iniziano sempre allo stesso modo ma non si sa mai come possono terminare, difficile immaginare impegni che vadano al di là di quel che abbiamo messo in agenda. Se anche incastrare il parrucchiere diventa un esercizio da equilibristi professionisti, immaginiamoci il resto.

Quindi, secondo me, le donne non ci sono perché devono fare altro. Perché se molte ragazze della mia età possono contare su mariti e compagni che sostengono, nei fatti, le loro carriere, per molte altre non è così. Per tutte quelle che hanno sposato uomini cresciuti con mamme che attendevano adoranti la sera il ritorno del marito con la cena pronta e la tavola apparecchiata e che, per completare il disastro, giustificavano la loro esistenza nell’adorazione del figlio maschio, la vita di questi tempi è dura. Non ce la facciamo, in primo luogo a immaginare di occuparci di qualcosa di più e di diverso da quel che abbiamo programmato, ma in molti casi non pensiamo nemmeno di poter dare qualcosa di più nemmeno alla nostra organizzazione. E quindi ecco che a far carriera sono più spesso gli uomini. Che possono restare in ufficio fino a tardi, che possono tranquillamente improvvisare un aperitivo alle 8 di sera mentre noi dobbiamo aver già buttato la pasta, che sono padroni del loro tempo. Perché loro hanno qualcuno che gestisce tutto il resto.

Ma siamo sicuri che tutto questo serva? Siamo certi che questi comportamenti facciano bene, alle organizzazioni, prima di tutto?.

Perché un conto è stare in ufficio fino alle nove di sera perché indispensabile finire un lavoro, diverso è attendere il ‘fuori orario’ facendo finta di fare altro.

Ma cambiare la cultura del lavoro, oltre che alle donne, farebbe bene anche agli uomini. Solo che il problema sono molto spesso le donne, che non hanno il coraggio di direi quei ‘no’ che sono bravissime a pronunciare con i loro figli, e tornano a casa con sensi di colpa pensanti come macigni e affrante perché si sentono escluse dai giochi perché invece di essere con i colleghi all’aperitivo son lì a preparare il sugo.

E allora cosa succede? Succede che quando le donne ai vertici ci arrivano molto spesso si travestono da maschio e mettono in pratica un esercizio del potere che è loro estraneo, ma poiché è l’unico che conoscono lo ritengono efficace. Possono farlo perché come ha detto Sergio Dompé, presidente di Dompé Farmaceutici, alla presentazione del mio libro, le donne nascono con una release del software più sofisticata, sono capaci di performance straordinarie.

Ma le donne devono sapere che non sono queste le performance che ci si attende da loro. E sono gli uomini a dirlo. Sono gli uomini che ho interpellato per scrivere questo libro. Perché se ragioniamo di lavoro femminile, e di organizzazioni, non dobbiamo continuare a farlo tra di noi. È con gli uomini che dobbiamo parlare, è insieme con loro che dobbiamo trovare soluzioni. Per lavorare ma anche, soprattutto, per vivere meglio.

Comments (3)

  • Non son affatto d’accordo. A certi livelli il fatto di tornare a casa è un volerlo fare. Diverso dal doverlo fare per chi lavora in fabbrica. Per l’educazione dei ragazzi non conta tanto il quanto ma il come. Stare a casa non è bello ma può diventare piacevole. E’ strano che certe scelte le debbano, le possano fare persone che se lo possono permettere. Ho conosciuto decine di donne che hanno sincronizzato i loro turni, i loro relais, i nidi e addirittura le piscine con la loro vita lavorativa. Anche attivamente nel sindacato. Non è un obbligo ma una scelta. Difficile finchè si vuole ma scelta. Ed infatti la compie solamente chi se lo può permettere. Le altre continuano ad andare in fabbrica.

  • E’ vero, a certi livelli si può scegliere di dedicarsi a quel che davvero si vuole fare. E infatti le mie riflessioni sono dedicate a chi tutta questa libertà di scelta non ce l’ha. Come dico spesso, soprattutto nelle grandi città dove i servizi sono pochi e costosissimi, finisce per lavorare chi se lo può permettere e quindi, paradossalmente, chi potrebbe anche stare a casa. ‘Per una donna che concilia, c’è una cassiera sull’orlo di una crisi di nervi’, titolava tempo fa un articolo… Chi vuole stare a casa, se è quello che vuole, che lo faccia. Chi però deve andare in fabbrica (sempre che le fabbriche sopravvivono, perché attenzione, è questo il vero tema) e, metti caso, voglia anche diventare genitore, deve poterlo fare. Ma con liste d’attesa per gli accessi al nido che non danno speranza e tempi della scuola che mal si adattano con chi ha un lavoro a tempo pieno, lavoro e maternità, nel nostro Paese, mal si conciliano.

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