La svolta in un articolo. Anzi, in una vocale

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Giudice è un sostantivo epicèno, non distingue maschile e femminile. Non è l’unico caso nel mondo delle professioni, basti pensare a parole come ‘presidente’ o ‘sindacalista’. Sembrerebbe la cicatrice della storia sociale sulla lingua, e forse lo è: fino a qualche tempo fa la distinzione non era necessaria né possibile. Eppure non è una peculiarità umana. Nel mondo animale sono epicèni i sostantivi pesce, topo, volpe e tigre. E chissà se anche la zoologia ha conosciuto il dibattito sulla neutralità di genere nel linguaggio che negli ultimi decenni ha coinvolto la cultura, le istituzioni e la burocrazia. Per convenzione si distingue oggi tra la funzione, ‘intesa come categoria generale che descrive le competenze, i poteri e le facoltà a essa collegate’, e la persona fisica che esercita la funzione. Ma sul biglietto da visita che la qualifica nella sua funzione di magistrato, Paola Di Nicola fa stampare la consonante e la vocale, l’articolo determinativo femminile che identifica la sua persona fisica: la giudice”. Con queste parole Melania Mazzucco ci introduce al libro che sto leggendo, La giudice, scritto da Paola Di Nicola, Giudice presso il Tribunale penale di Roma. Un testo che ci dimostra nella sua drammatica evidenza che la professionalità, per esercitare il proprio lavoro, non basta. In molti casi, essere uomo, consegna autorevolezza. E credibilità. Non a caso il pluriergastolano dinnanzi a un pubblico ministero donna domanda “Aund’è u magistrato?” (Dov’è il magistrato? (1)

Il libro racconta del percorso straordinario che hanno saputo fare le donne in magistratura, del lungo cammino di conquista della credibilità a partire dal 1963, quando per la prima volta il concorso in magistratura viene aperto alle donne. Nel 2012 le donne magistrato sono 4006, il 46% dei magistrati italiani. Un bel salto in mezzo secolo. Ma il significato di questi dati travalica il tema della rappresentanza di genere. Anche in magistratura è importante poter contare su di un equilibrio di generi perché è fondamentale che anche in questo ambito le donne portino il ‘loro’ punto di vista. L’autrice cita il primo processo ripreso dalla televisione di Stato: è il 1978 e una donna denuncia i suoi violentatori. L’arringa dell’avvocato non ha bisogno di commenti: Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente. È l’avvocato della vittima, Tina Lagostena Bassi, a rompere un muro, a rovesciare un punto di vista. L’unico conosciuto fino a quel momento, l’unico preso in considerazione.

Per questo è importante che la differenza abbia una connotazione anche semantica. Anche se gli stereotipi sono duri a morire. Lo testimoniano i risultati di una ricerca dell’Università di Scienze Sociali di Varsavia che ha messo in evidenza come le donne, quando usano titoli professionali declinati al maschile, vengono apprezzate di più. Se dirigiamo qualcosa, insomma, meglio farlo da direttori. Direttrici suona ancora oggi meno credibile. Per fortuna che Presidente è un vocabolo epicèno. Così, dovesse mai essere eletta una donna al Quirinale – e di quanto sia urgente cambiare sguardo, punto di vista, di quanto sia tremendamente impellente guardare alle cose senza ricondurle inevitabilmente a logiche conosciute, per incidere sulla realtà e modificarla – ci giocheremo la partita con un articolo, anzi sarà una vocale la chiave di volta. ‘Il’ o ‘La’ Presidente? Per immaginare la risposta dobbiamo capire chi sono in Italia i grandi elettori del Presidente della Repubblica. E poiché la polemica sulla scarsa rappresentanza femminile al loro interno è già scoppiata, se la maggioranza di questi ‘grandi elettori’ fosse disposta ad abbandonare preconcetti e pregiudizi per affidarsi a qualcosa di ‘diverso’ (inteso come diverso genere), sarebbe un gran bel segnale.

(1)    Paola Di Nicola, La giudice, Ghena, Roma 2012, p.29

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