La sindrome Italia
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di Elisabetta Favale (Spaziocuore)
Riflettevo sul concetto di felicità in seguito alla lettura di un interessante libro: Economia della felicità (Il Mulino). Gli autori: Bruno S. Frey (docente di economia a Zurigo e di Scienza del comportamento a Warwick ) e Claudia Frey Marti (psicoterapeuta), hanno voluto analizzare una serie di variabili in grado di influenzare la felicità delle persone. Nell’elenco delle keywords troviamo: denaro, disoccupazione, inflazione, uguaglianza di retribuzione tra uomini e donne; praticamente una serie di cose che appartengono a quella che è la nostra vita più materiale. Ma, fanno notare gli autori, quello che non viene misurato come vera variabile in grado di influenzare la nostra felicità sono tutte quelle cose che invece appartengono a un’altra sfera, quella inerente la qualità della nostra vita come ad esempio: la libertà, la qualità dell’ambiente, il tempo libero, la famiglia. Dalla ricerche fatte, sembra che la nostra felicità sia influenzata dal nostro reddito ma che, a un certo punto, a fronte di un aumento del livello medio del reddito pro capite, non corrisponde un aumento della nostra felicità, anzi, l’effetto positivo di un incremento del reddito di una persona esaurisce il suo effetto nell’arco di un solo anno. Le persone che vivono nelle nazioni ricche sono più felici di quelle che vivono nelle nazioni povere, ci fanno quindi cadere il mito che talvolta aleggia intorno a una povertà vissuta all’insegna dell’assenza di stress e della natura (ma ci abbiamo mai creduto a questo mito?).
Perché dico questo?
Perché mi sono messa a studiare, per il lavoro che faccio (fornisco servizi socio-assistenziali con Spaziocuore), la cosiddetta ‘sindrome Italia’.
La malattia è stata identificata nel 2005 in Ucraina da due psichiatri, Kiselyov e Faifrych, che per la prima volta hanno diagnosticato, in alcune donne che lavoravano all’estero, una grave forma di depressione, causata da fattori che generavano forti crisi di identità. Si chiama Sindrome Italia perché l’Italia è il Paese Europeo con il più alto numero di badanti.
Qualche giorno fa, F., Ucraina di 55 anni portati male, due denti d’oro e uno sguardo mite, mi raccontava che la famiglia del malato di Alzheimer che assisteva, non le ha voluto rilasciare delle buone referenze, nonostante i due anni passati a schivare oggetti, a medicarsi ferite, a non dormire la notte, a riempirsi le orecchie di frasi sconnesse e gli occhi di gesti, talvolta, osceni. F. è stata punita perché, dimagrita 15 chili, distrutta psicologicamente, ha dato le dimissioni.
Ma F. è moglie, madre, nonna, figlia lontana, ha perduto la sua identità nazionale e i suoi figli appartengono alla schiera dei cosiddetti ‘orfani bianchi’ o ‘orfani sociali’ a rischio suicidio o, se va bene, a rischio isolamento.
Ed ecco allora che il nostro Paese, con circa 744mila badanti ufficiali (nel 2001 erano 4.000), dovrebbe essere, per queste persone, la fonte di quel reddito che contribuisce a rendere l’essere umano più felice; in questo caso la felicità dovrebbe addirittura essere duplice: per la badante che gode di un reddito e per il/la badato/a che altrimenti sarebbe solo/a. L’Istat ha dichiarato che i nostri anziani saranno il 33% della popolazione nel 2056 mentre gli under 14 passeranno dal 14% al 12% nel 2065; al contrario i migranti saranno il 24% della popolazione.
Purtroppo, concetti come l’uguaglianza sociale, diritti dei cittadini (tutti) e lavoro sommerso (come spesso è quello delle badanti) non sembrano entrare in quel ‘paniere’ che contribuisce a misurare l’indice della felicità e l’Italia, Paese di poeti, Santi, navigatori (qualcuno dice anche evasori), di sentimenti, qualunquismo, pizza e mandolino, oggi dà il nome a una sindrome depressiva.
Allora finirei ricordando che: ‘il lavoro nobilita l’uomo’ sembra l’abbia detto Darwin (ma non è sicuro) a proposito dei suoi studi sull’evoluzione della specie, ma ‘il lavoro rende liberi’ era la frase scritta sul campo di concentramento di Auschwitz.
eugenio bastianon
Temo che la questione “badanti” sia più complessa di quanto prospetta l’intervento iniziale, se non altro perché il datore di lavoro della badante è spesso una famiglia che sottrae, per pagare la badante, risorse importanti alla propria vita quotidiana, assumendosi l’onere di un welfare che in Italia vede le famiglie quasi abbandonate a se stesse.
Alcuni quesiti:
quanto può costare ad un famiglia un team di badanti impegnato su una persona in grave situazione di Alzheimer?
come tutelare la persona in sofferenza da casi, non così infrequenti, di burn out, e quindi di possibile aggressività contro la persona sofferente, della badante?
è mai stato letto per intero il contratto nazionale delle badanti, ad esempio per quanto riguarda il diritto di abitazione che la badante ha anche un volta che la persona assistita sia già morta?
Questo non significa “condannare la badante”. Significa solo non condannare a priori famiglie già in grave difficoltà.
In questa sede è già stato più volte affrontato il tema del welfare di condominio o di quartiere. Credo sia questa una strada da percorrere, almeno come integrazione del welfare che la famiglia si assume con la badante.
elisabetta
è una situazione molto complicata credimi. io ho modo di vedere entrambe le posizioni: quella della famiglia che fa sacrifici e quella della risorsa che svolge il lavoro. ci sono casi di equilibrio, dove la famiglia gestisce il problema con la badante e lì si crea una situazione ideale con un beneficio per tutti, soprattutto per il malato. Altre volte avviene che la badante viene lasciata sola a gestire tutto e in quel caso le dinamiche cambiano notevolmente. Alcune di loro dormono nello stesso letto del badato e lavorano 7 giorni su 7 senza avere le 24 ore di riposo continuativo. in quanto alla conoscenza del CCNL se la famiglia si rivolge a chi fa questi servizi viene spiegato tutto anche per metterli al riparo da eventuali vertenze ma come dici tu spesso il sacrificio economico è notevole per cui non di rado si procede senza chiedere consulenza a nessuno (la parrocchia o amici di amici diventano i consiglieri) e lì si innescano situazioni dolorose per tutti. Il welfare condominiale di cui sono “portatrice sana” purtroppo mal si adatta a casi difficili come l’ alzheimer perché occorre una dedizione totale che non può essere suddivisa tra i condomini, anche se con un amico geriatra stiamo studiando il modo di “ingegnerizzare” anche casi del genere. In autunno vogliamo promuovere seminari gratuiti sia per le assistenti familiari sia per le famiglie che devono essere supportate per capire bene la malattia. Sai che spesso la famiglia di un malato di Alzheimer definisce il malato autosufficiente? ma il discorso è molto molto lungo!