Basta piangere

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 La mia generazione –sono nata a metà degli anni ’60– si è adagiata nel lamento. Ci si ritrova a rimarcare che i nostri genitori vivevano meglio, lavoravano e facevano impresa nel momento del boom economico, quando l’euforia della ricostruzione dopo la guerra era palpabile. Il ceto medio aveva l’illusione di avvicinare il proprio tenore di vita al modello borghese, la seconda casa non era un miraggio ma qualcosa che molte famiglie si potevano permettere. Noi che siamo venuti dopo siamo bravissimi se quelle seconde case riusciamo a non venderle, il tenore di vita dei nostri genitori è per noi un ricordo. Non riusciamo più a risparmiare, è già tanto se abbiamo un lavoro. E via di questo passo. Questo crogiolarsi nel criticare il presente ci impedisce di progettare con piglio creativo il futuro, questo eterno lamento per quel che non c’è più rischia di tarparci le ali. E abbiamo già più di quarant’anni… Ma cos’è esattamente questo qualcosa che non c’è più? Cosa non abbiamo noi che avevano i nostri genitori? Mia mamma è nata nel 1935 e andava a scuola durante la guerra. Per scaldare le aule i ragazzi si portavano la legna da casa. E camminavano, tanto. Oggi mia mamma abita accanto a una scuola privata. Quando vado a pranzo da lei la strada è completamente intasata dal traffico delle macchine dei genitori che recuperano i figli fuori da scuola (siamo nel pieno centro di Milano, con due stazioni della metropolitana a distanza di 100 metri). L’Italia dei nostri genitori era un Paese dove le donne, ancora, partorivano in casa, dove il lavoro femminile era in molti casi una ‘concessione’ del marito. Quando andavamo noi alle elementari erano poche le mamme dei miei compagni di classe che avevano un lavoro. Le donne poi che nascevano in campagna sapevano che avrebbero dedicato al lavoro dei campi tutta la loro esistenza. Quando partorivano dovevano ritornare al più presto al lavoro e si portavano il figlio, se sopravviveva, fatto non così scontato, in una cesta che depositavano all’ombra per allattarlo. Poi quando cresceva lo lasciavano in cascina per andare a lavorare nei campi minimo 12 ore. Teresina, che è stata la mia tata, è nata in campagna e si è trasferita in città quando aveva trent’anni. Se le parlo di quel che noi intendiamo con worklife balance mi guarda stranita. È cresciuta con la sola idea di seguire il ritmo della terra, che non conosce soste. Era un paese infinitamente più maschilista, racconta Aldo Cazzullo nel suo Basta piangere.  “Un Paese in cui i femminicidi non facevano notizia: chi trovava la moglie con un altro e la ammazzava non commetteva un crimine ma un ‘delitto d’onore’, spesso non finiva neppure in galera”. Le donne non lavoravano, ma non si riposavano mai. La gestione della famiglia era infinitamente più gravosa. Si cucinavano tre pasti al giorno, compreso in vacanza, nella mitica seconda casa, dove i ritmi erano quelli della città. Si traslava un’identica impostazione che vedeva la donna impegnata nelle faccende domestiche semplicemente ‘altrove’. Mangiare in spiaggia non era consentito, ci si sedeva a tavola al cospetto delle medesime portate alla quale eravamo abituati in città. Con lo stesso infernale ritmo dell’inverno, come lo definisce Cazzullo. La vera attesa era per l’ultima sera della vacanza, quando si sbrinava il frigorifero ed era acconsentito mangiare in pizzeria. Prima di tornare in città e riprendere il ritmo. Infernale, appunto. Per la mia generazione si è verificata una rivoluzione, tutte le donne lavorano –fatta eccezione per quelle che possono permettersi di non farlo– e questo significa che siamo state capaci di adattarci ai cambiamenti. E adattarsi, come ha ben detto Darwin, è la condizione indispensabile per superare qualsiasi crisi. Certo, le rivoluzioni non sono mai indolori, ma intanto ci lamentiamo tutti nelle nostre case riscaldate dopo esserci fatti un bagno caldo. Quindi ha ragione Cazzullo, basta piangere. Basta lamentarsi, e mi riferisco anche alle donne che lamentano che manca il tempo, che manca l’asilo, che manca in azienda la cultura che consente l’inclusione del genere femminile. Se manca la cultura creiamola, senza alibi. Nella squadra del neosegretario Matteo Renzi troviamo 5 uomini e 7 donne. Responsabile per le politiche del lavoro Marianna Madia, un figlio di tre anni e uno in arrivo. Ha dichiarato Renzi: “Una giovane donna con un figlio piccolo e in attesa di un altro si occuperà di lavoro, non è una notizia?” Si.

Comments (2)

  • La questione femminile è questione globale
    Mi pare di aver letto che il femminicidio in Germania supera il femminicidio in Italia.
    Non ho in mente diagnosi utili.
    Sono però convinto che la terapia sia nel pensare la questiome femminile insieme con la questiome maschile, su cui siamo in gravissimo ritardo

  • Chiara il tuo commento mi piace molto. Siamo Donne Acrobate, ma le acrobazie delle generazioni precedenti non erano da meno, anche per le nonne che lavoravano, come la mia che ha tirato su quattro figli, lavorando come maestra con anche i doppi turni (tra mattina e pomeriggio dopo la guerra ha avuto anche 120 bambini da seguire), ma senza mai lamentarsi, ma sempre aggiungendo esperienze nuove, pittura, ricamo, cucina, erboristeria, …Io credo che alla fine la nostra vita ci piaccia cosi come la viviamo, nonostante tutto, quello che secondo me a noi manca sono due cose:
    la prima e’ la solidarieta’ che c’era forte e che forse ancora esiste in ambiti meno industrializzati. La raccolta delle olive o la preparazione del pomodoro, oppure un trasolco, o l’assistenza ad un malato, o la gestione dei bambini quando si ha una scadenza sul lavoro, diventano meno pesanti se fatti insieme o se si sa che si puo’ contare su un gruppo di parenti o amici. Magari diventa anche divertente.
    La seconda cosa e’ la risata: di mia mamma, che ha vissuto una giovinezza di guerra e di ristrettezze, e poi ha lavorato tantissimo come imprenditrice, invidio la capacita’ di ridere, nonostante le difficolta’, i rischi, le paure, ma il potere taumaturgico della risata e’ grandissimo, ed io credo proprio di essermelo perso. Come dici tu, anch’io mi sono adeguata al lamento.

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