La potenza di un gesto
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Recentemente sono stata a Parma alla presentazione del libro di cui è coautrice Paola Pomi. Un testo sulla Blockchain di cui consiglio la lettura*. Paola gestisce un’azienda di famiglia e negli ultimi anni è riuscita a far crescere all’estero il suo business, nonostante sia donna e italiana (un binomio che suscita ancora una certa dose di scetticismo). Ma tant’è, la questione è un’altra. Alla presentazione segue aperitivo e faccio tardi. Alle 21 sono in macchina e ricevo la telefonata di uno dei miei figli, mi avverte di aver preparato la cena. Li per lì non trovo il coraggio di confessare l’entità dell’aperitivo: salumi, torta fritta e altre prelibatezze emiliane. Ringrazio e apprezzo il gesto. Voi mi direte che è normale occuparsi di chi sta vicino a noi, ma io non sono così sicura che questo avvenga sempre.
Una settimana dopo mi trovo a moderare un dibattito dedicato al welfare aziendale. Al tavolo tre donne e un uomo, già la situazione è anomala. I panel dei convegni sono quasi sempre sbilanciati ma, forse, quando il tema è il welfare, è più frequente che venga trattato dalle donne. Dalla discussione emerge un concetto al quale dovremmo prestare attenzione: il welfare è responsabilità di ognuno di noi e non solo uno strumento calato dall’alto. Questo concetto, semplice, lo esprime una relatrice che si occupa di Qualità e CSR nell’azienda fondata dal marito. Una classica PMI italiana, con pochi dipendenti, dove non è necessario fare grandi survey per capire i bisogni delle persone. In questi contesti, la maggioranza sul nostro territorio, è normale vivere ‘in ascolto’ dei bisogni e trovare microsoluzioni.
Ma torniamo al significato del ‘fare welfare’. Forse, è il caso di allargare lo sguardo e dire che non è solo l’azienda che deve farsi carico di ascoltare i bisogni delle persone, ma siamo anche noi che dobbiamo contribuire al benessere della nostra organizzazione. Dovremmo prestare maggiore devozione al ‘Dio delle piccole cose’, riprendendo il titolo del bel romanzo di Arundhati Roy: è dalle piccole attenzioni quotidiane che possiamo partire per garantire dosi quotidiane di benessere a chi sta intorno a noi. Prestare attenzione ai dettagli che contribuiscono al bene comune, stare in ascolto dei bisogni che l’organizzazione esprime, significa in fondo occuparsi di se stessi. Nelle piccole, come nelle grandi aziende, le persone non possono più esimersi dal porsi la domanda: cosa posso fare io per migliorare il benessere di chi lavora con me?
Altrimenti cadiamo nell’equivoco di banalizzare la questione e di delegare all’azienda la presa in carico di alcuni problemi o facilitare l’acquisto di alcuni servizi.
Ma il welfare è molto altro. Come emerso nei due giorni del convegno Wellfell promosso dalla nostra casa editrice, stiamo entrando nella seconda stagione del welfare aziendale: dalla fornitura di servizi e soluzioni al welfare di comunità. Il welfare deve diventare uno strumento che consente di far crescere i territori, contribuire a ridurre le disuguaglianze, ma tutto questo si concretizza se il punto di partenza è una nuova consapevolezza che parte dalla responsabilità di ognuno. Siamo tutti chiamati a prenderci maggiore cura di chi sta accanto a noi: a casa, in azienda, nella nostra comunità.
Certo, un gesto potente, che le aziende dovrebbero fare da subito per contribuire al benessere delle donne sarebbe ridurre il pay gap. Qui avremmo bisogno di un segnale forte, di una volontà che abbraccia la collettività tutta per eliminare un malcostume tra i più ingiusti, che penalizzano non solo le donne ma l’economia nel suo complesso. Per le donne il lavoro è sempre meno conveniente e accudire i figli, quando e se arrivano, diventa una scelta quasi obbligata se la rinuncia allo stipendio incide meno sul bilancio familiare. Anziché di pagare le donne di meno, dovremmo saper imporre salari uguali. Saranno le donne, con una maggiore disponibilità economica, ad attivare servizi a supporto della conciliazione e non preferire, come fanno ancora in troppe, l’attività di cura allo sviluppo professionale. E invece di garantire politiche retributive eque, i nostri politici decidono che lo Smart working deve essere destinato in via privilegiata alle donne con figli piccoli. In sintesi: le paghiamo di meno e, non contenti, continuiamo ad etichettare le mamme come uniche depositarie dei lavori di cura. Anche qui il legislatore deve essere un maschio senza figli o, peggio, donne che indossano la divisa da uomo. Lavorare da casa con un bambino da zero a tre anni nei paraggi è un’impresa impossibile, e infatti lo Smart working non è questo. Ma chi legifera evidentemente non sa. E certamente non ha idea di cosa significhi prendersi cura.
*Castellani, Pomi, Triberti, Turato, Blockchain. Guida pratica tecnico giuridica all’uso, goWare 2019.