Donne con il talento del cortocircuito
Parlare di lavori maschili e lavori femminili non ha più senso. In questo articolo parliamo di Valeria che dirige un carcere.
di Valeria Pirè
Che cosa significa per una donna lavorare in carcere? Una domanda che mi è stata posta un’infinità di volte e che ogni volta ho dovuto pormi nuovamente, perché la risposta non è scontata o univoca neanche per me. Sono trascorsi cinquant’anni dalla storica sentenza della Corte Costituzionale, la nr.33 del 1960, con cui fu per la prima volta decretata l’incostituzionalità delle norme che impedivano l’accesso delle donne a tutte le cariche pubbliche e a tutte le carriere nella Pubblica Amministrazione. Secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato2, nel 2009 la presenza delle donne nella Pubblica Amministrazione ha superato il 55%, ma la percentuale di dirigenti di sesso femminile è nettamente più bassa, poiché –come, del resto, nella politica e nelle carriere diplomatiche– quando si tratta di concedere spazio in ruoli di potere, il quadro cambia ed emergono tutte le riserve ‘di prassi’: il territorio è stato storicamente colonizzato dal potere maschile e non si consente con facilità di staccare qualche bandierina celeste dall’organigramma delle postazioni già conquistate. Dall’altro lato, sembra a volte che, in parallelo, le donne non utilizzino tutte le risorse a disposizione per conquistare questi spazi.
Filtro antidiscriminatorio: solo un rinvio
Il mondo dei dirigenti di carcere è costituito oggi in larghissima misura da donne, e da qualche anno vi sono tante donne anche tra i Commissari di Polizia Penitenziaria, spesso chiamate a ricoprire il ruolo di Comandanti negli istituti penitenziari3. Probabilmente in molti casi una donna che partecipa a questi concorsi non può percepire l’esatta dimensione della scelta che sta compiendo. Forse ha cognizione del profilo professionale e delle competenze richieste, ma non può essere pienamente consapevole del complesso mondo di variegata umanità che la accoglierà, con dinamiche del tutto peculiari e la violenza di logiche che sono autoreferenziali da decenni. Il direttore di un istituto penitenziario ha un numero smisurato di competenze e responsabilità, che vanno dalla gestione del personale alla gestione dei detenuti, dalla contabilità alle norme sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, dalle relazioni sindacali (estremamente conflittuali e complesse) ai rapporti con l’esterno (associazioni, magistratura, politica, forze di polizia, ‘superiori’ uffici, enti locali, Asl), dalla sicurezza dell’istituto agli adempimenti burocratici, dall’igiene (degli alimenti, dei luoghi, delle persone) alla manutenzione ordinaria e straordinaria della struttura, nonché alla stipula dei contratti, alle gare, agli acquisti di tutti i beni necessari per la struttura. Per rendere l’idea, bisogna pensare che il carcere è un luogo in cui si ha la responsabilità (diretta e continuativa) di persone 24 ore su 24. Rispetto ai detenuti bisogna occuparsi dei rapporti con la famiglia, dell’aspetto sanitario, di tutti gli aspetti giuridici (il carcere gestisce e aggiorna il fascicolo giuridico del detenuto), psicologici, psichiatrici, di prevenzione (degli atti autolesionistici, della commissione di altri reati), del trattamento “rieducativo” (o ‘risocializzante’, a seconda di come lo si voglia intendere), delle numerosissime problematiche connesse alla convivenza forzata delle persone. Chi è allergico al matrimonio o ha fatto l’esperienza da fuori sede ai tempi dell’Università, dovrebbe fare un ulteriore sforzo di immaginazione e pensare cosa significhi dividere uno spazio ristrettissimo, in una contiguità assoluta e continuativa, senza possibilità di scegliere gli altri occupanti della cella e indipendentemente dal fatto che si lavino o no, che parlino la stessa lingua, abbiano gli stessi gusti, gli stessi interessi, le stesse passioni.
Una professione di cura
Quella del direttore è quindi, innanzitutto e principalmente, una professione di cura, in cui la donna può senza dubbio offrire una prospettiva rovesciata, un contributo personalizzato, uno sguardo ‘altro’. La donna con un ruolo di potere dispone oggi di un’opportunità unica: quella di poter contribuire a scardinare un classico stereotipo di genere, costruendo una sintesi tra potere e cura, caratteristiche attribuite tradizionalmente l’una all’uomo e l’altra alla donna. Sicuramente lo strumento del concorso pubblico offre la possibilità di smussare, nella fase della selezione, la competizione basata sul genere; nell’Amministrazione Penitenziaria questa evoluzione relativamente recente non ha, però, ancora prodotto conseguenze stabili e una percezione di cambiamento concreta e diffusa. Si diventa, quindi, direttore di carcere con concorso pubblico: non vi sono a monte né un filtro discriminatorio rispetto all’accesso né una difficoltà di riconoscimento formale del ruolo, come spesso avviene per le donne all’inizio di altri percorsi lavorativi. Quello che sembra un aspetto estremamente positivo –addirittura, in apparenza, la cifra della differenza tra mondo del lavoro pubblico e privato– confluisce invece nella variegata mappa delle difficoltà che una donna con un ruolo di potere si trova ad affrontare successivamente; in sintesi: non ci facciamo illusioni, non ci sono sconti. Trattasi solo di rinvio. Una volta assunto l’incarico, ci si trova infatti a dover affrontare un contesto quasi esclusivamente maschile (se l’istituto penitenziario è maschile) o ‘maschilizzato’ (se l’istituto penitenziario è femminile) e storicamente caratterizzato da chiusura, anzi, direi dalla ‘sindrome della barriera’. L’abitudine a ragionare in termini di ‘distanza’ e ‘distacco’ –che diventano quasi dei dogmi–, la seria difficoltà a cogliere il lato positivo dell’interazione con l’esterno, la vocazione a riprodurre all’infinito il modello del circuito chiuso all’interno della già quasi blindata ‘istituzione totale’4 diventano comportamenti paralizzanti, ma così diffusi da essere vissuti come ‘normali’. Quasi che le mura, i cancelli, i muri di cinta non fossero più barriere, simboli (anche fisici) di esclusione e isolamento, ma un bozzolo protettivo, un mondo a parte i cui occupanti come per magia rischiano di sentirsi feudatari di un universo ristretto, piuttosto che membri di un consesso più allargato, che imporrebbe un faticosissimo confronto e un impegnativo mettersi in discussione senza rete, con l’incombente rischio della perdita di potere e dell’anonimato. Certo, non è mai igienico generalizzare, perché il territorio nazionale non è omogeneo e molte realtà hanno avuto significative evoluzioni. Ma la sensazione, ancora oggi, è che il prototipo della ‘cellula autarchica’ non sia mai stato archiviato e sia stato così fortemente interio rizzato da opporre strenua resistenza a qualsiasi attività di dissuasione. D’altra parte, quale altro contesto consentirebbe il sopravvivere di forme di potere autoreferenziale, sicuramente più rassicurante che la navigazione in mare aperto? La sfida (assolutamente temeraria) per il pensiero femminile diventa quindi volere, cercare e rendere accattivante l’alternativa alle certezze acquisite, il che presuppone, però, la formulazione di prospettive più faticose, più impegnative e più rischiose.
Dare spessore e sostanza a questa investitura
La donna direttore di istituto penitenziario ha un’investitura formale definita: il punto di partenza, rispetto all’uomo, è quindi assolutamente paritario. I problemi sorgono subito dopo, quando percepisci che sei tu a dover dare spessore e sostanza a questa investitura, perché questo riconoscimento nel merito lo devi conquistare giorno per giorno, minuto per minuto, con la coerenza e la credibilità delle scelte e dei comportamenti. In linea di massima, ho notato che il percorso del direttore maschio5 procede in senso inverso: il prestigio e il riconoscimento del ruolo gli vengono concessi automaticamente e immediatamente, salvo poi sottrarglieli se non si dimostra credibile. A volte ho percepito che la mia capacità di reazione agli eventi critici o frustranti, il mio sforzo di non voler mostrare cedimenti di fronte alle difficoltà siano stati percepiti come destabilizzanti rispetto a uno specifico modello socio culturale femminile, accettato e riconosciuto: con grande sorpresa ho visto gli uomini che mi circondano nell’ambito lavorativo reagire con più indulgenza rispetto ad atteggiamenti ‘femminili’ identificabili come tali (problemi connessi alla gestione dei figli, crolli psicologici, reazioni di isteria, atteggiamenti seduttivi) che pure creavano loro problemi, ma che più corrispondevano a prototipi ben assimilati e quindi tranquillizzanti.
Un modello di potere non speculare a quello maschile
Per la donna il vero problema diventa, dunque, elaborare un modello di credibilità che con pazienza e coerenza dovrà essere filo conduttore delle relazioni professionali e delle relazioni umane sul luogo di lavoro. Fino a condurre alla metabolizzazione: un modello che non sia speculare a quello maschile o una sua mera riproduzione, in una sperimentazione quotidiana che si dibatte tra il soffocamento delle proprie debolezze e il desiderio di trarre forza dalle proprie fragilità,6 elevandole a paradigma di un modello di gestione che non può e non deve mai prescindere dalla necessità di umanizzazione dei rapporti e dei comportamenti. La difficoltà sorge proprio nell’intricata operazione di individuazione di questa terza via, che in parte coniughi e in parte rielabori e qualche volta rifiuti le istanze bipolari (anche qui, il bipolarismo) dei modelli standard maschile e femminile. Il potere viene spartito più agevolmente e con minori remore con chi ne condivide gli stessi presupposti e gli stessi obiettivi; vi sono invece innumerevoli difficoltà nell’amministrarlo interagendo con chi adotta categorie di pensiero e di azione difformi o distanti. La robusta struttura gerarchica che costituisce la spina dorsale dell’Amministrazione penitenziaria è ancora spesso pervasa dall’idea che il potere sia ‘muscolare’, che la forza debba essere tangibile e riconoscibile, così da garantire la capacità di influenzare il contesto. Probabilmente, una maggiore attenzione alla diversa modalità di interazione empatica e alle caratteristiche dell’approccio empatico dell’uomo e della donna nel mio lavoro offrirebbe interessanti spunti di riflessione. Sicuramente la visuale muscolare è anche molto realistica. Ma c’è con certezza un fondamento biologico che rende immodificabile la differenza tra ragionamento maschile, fondato su principi di giustizia astratti e su un’etica individualista, e il ragionamento femminile, orientato verso un’etica di responsabilità verso il prossimo? I condizionamenti dell’educazione ricevuta sono così esclusivi e assolutizzanti da rendere improponibile una soluzione creativa? Questo percorso lungo, accidentato e dall’esito non scontato presenterebbe sicuramente meno insidie se fosse condiviso e partecipato da tutte le donne, ma troppe volte ancora accade che si scelgano le scorciato ie, le soluzioni semplici, i sistemi che aggirano l’ostacolo e attribuiscono ‘punteggi’ e ‘promozioni’ con minore sforzo. All’inizio della mia carriera avevo adottato il ‘modello burqa’, pensando, da un lato che si dovesse massimo rispetto ai detenuti e alla loro situazione di deprivazione affettiva e, dall’altro lato, che un abbigliamento che mascherasse la mia femminilità avrebbe consentito di valorizzare tutti gli altri aspetti della relazione professionale, quasi che il direttore dovesse essere un individuo asessuato. Con il tempo, con l’esperienza, acquisendo una maggiore sicurezza, ho cercato e (quando è ‘andata bene’) trovato un punto di equilibrio tra me, le mie paure e il mondo. Il linguaggio della propria femminilità, utilizzato senza fini strumentali, medio tempore può contribuire a incidere sull’orientamento culturale del contesto: senza dubbio anche le azioni individuali hanno un peso. Sarebbe bello giungere a modificare certe dinamiche e certi ‘sillogismi’, introducendo nuove e diverse categorie di valutazione delle competenze, delle capacità, delle risorse del mondo femminile, rispetto a quelle frutto del radicato retaggio culturale, accettando anche il rischio della portata destabilizzante di questa scelta e mettendo in discussione i meccanismi della ‘misoginia femminile’, a volte più pericolosa di quella maschile. Accade ancora troppe volte che per ragioni altre, francamente a volte poco decodificabili, frettolose e superficiali valutazioni siano somministrate all’opinione pubblica senza una necessaria e robusta conoscenza dei fatti e del contesto di cui si discetta. Riporto a tale proposito lo stralcio di un articolo (“Adesso è vietato anche criticare le donne”), in cui si cita una sentenza della Cassazione, che ha confermato la condanna nei confronti di un sindacalista e di un giornalista per il reato di diffamazione, a seguito della querela della direttrice del carcere di Arienzo. Il sindacalista aveva affermato che “al carcere di Arienzo ci voleva un uomo” e il giornalista aveva pubblicato un articolo dal titolo: “Carcere: per dirigerlo serve un uomo”: “Dunque, se ho ben capito il senso della sentenza, qualora si fosse detto, per ipotesi, che la direttrice era incapace, pigra, alcolizzata o inesperta e si fossero portati fatti a riprova delle gravi affermazioni, gli imputati non sarebbero stati condannati, perché gli apprezzamenti del sindacalista non sarebbero stati ‘gratuiti’. Cioè, le considerazioni specifiche, se comprovate, non avrebbero leso la dignità della persona, neppure a mezzo stampa, mentre il dato generico di appartenenza al sesso femminile si risolverebbe, in sostanza, in un’arbitraria discriminazione di genere ‘perché ancorato al profilo, ritenuto decisivo’ del dato biologico. Be’, per quanto il ruolo di direttore di carcere sia aperto a entrambi i sessi e per quanto molte donne se la cavino egregiamente in questa funzione, forse è legittimamente pensabile –e dicibile– che qualche carcere e qualche direttrice non siano facilmente compatibili. Una determinata realtà carceraria di per sé, infatti, può avere l’esigenza di essere organizzata da un uomo più che da una donna. Non perché entrambi i sessi non abbiano medesimi doveri e opportunità, nonché competenze, giusta l’eguaglianza giuridica e sociale, ma perché non si può spensieratamente affermare, in termini categorici, che uomo e donna siano uguali anche biologicamente e psichicamente. […]Sarebbe potuta essere considerata una frase infelice, forse maschilista, forse anche no, quella del sindacalista. Ma la frase in sé, dov’è che lede la reputazione? Dove si è consumata la lesione dell’identità personale e professionale della direttrice per il richiamo obiettivo e indiscutibile del dato biologico? Non tutte le affermazioni maschiliste e inopportune costituiscono reato, se no quasi tutte le donne ogni giorno consumerebbero il loro tempo a scrivere querele. In nome della legge7”. Molte domande mi sono posta dopo la lettura dell’articolo, sia sulla necessità di un simile ‘contributo’ sull’argomento sia sulla profonda genericità delle affermazioni, in base alle quali, quindi, si dedurrebbe che la differenza biologica diventa un criterio prioritario nella valutazione dell’operato delle persone in questo campo, e determina automaticamente la differenza di capacità, di idoneità e di ‘compatibilità’ con il carcere. D’altro canto, una donna in carcere non può che aspirare a ‘cavarsela’ (quando va bene). D’istinto mi verrebbe da evidenziare le indiscutibili capacità e il coraggio spesso silente (a questo punto, forse, troppo silente) con cui le tantissime donne che dirigono istituti penitenziari complessi affrontano quotidianamente le inenarrabili difficoltà e i grandi risultati che raggiungono. Ma scivolerei sul terreno della banalità. Forse non è realistico illudersi che la notevole fatica di affermare il diritto e l’importanza di scegliere liberamente possa produrre proseliti, se i costi sono così elevati e sproporzionati rispetto al risultato apparente. Intraprendere o seguire un percorso più tortuoso determina inevitabilmente dover affrontare maggiori e più incombenti ostacoli. Ha suscitato in me grande impressione il Global Gender Gap Report stilato nel 2009 dal World Economic Forum (una onlus svizzera indipendente) che classifica 134 paesi sulla base delle differenze di genere in quattro ambiti: economia, politica, educazione, salute: l’Italia si trova al 72esimo posto, dopola Cina, il Gambia,la Romania, il Paraguay,la Colombia e l’Uganda, Paesi in cui il mancato rispetto dei diritti umani o l’eredità di arretratezza economica farebbero pensare in forma pregiudiziale a uno stentato sviluppo anche in altri settori. In un contesto, come quello italiano, in cui i parametri di giudizio e il comune sentire sono fortemente e costantemente condizionati da ‘icone’ e modelli preconfezionati, una domanda da porsi con lucidità e attenzione –nel mio campo come forse in altri– è quanta forza sia necessaria a una donna oggi per compiere azioni individuali, magari sommerse e marginali, ma sganciate da questa specie di fiume in piena di frasi fatte e bisogni (presunti) indotti, mentre i bisogni (veri) sono soffocati sul nascere o non riconosciuti.