Intervista a Federica Appiani
Altro tema è quello di non doversi trovare al bivio carriera figli…
Credo che una donna debba ancor prima chiedersi qual è il suo progetto di vita. Una volta delineati gli obiettivi, dovrebbe assegnare un livello di importanza a ciascuno e agire di conseguenza. Io riconosco di essere privilegiata: sono nella felice condizione di fare un lavoro che mi piace e mi consente di gestire il mio ‘progetto di vita’, con buoni ritorni economici. Ci sono situazioni molto meno piacevoli, di donne che non ricoprono posizioni manageriali e non si possono permettere tutta la rete di sostegno su cui posso fare affidamento io. E oltre al loro lavoro devono sostenere il peso della cura della casa.
Dalle interviste che ho fatto è emersa una ‘mania di perfezione’ specialmente della donna italiana: avere la casa sempre in ordine, cucinare sempre e magari piatti ricercati ecc. Questa esigenza di far tutto bene si riflette poi sul lavoro e sull’autostima: spesso le donne si creano molti più problemi rispetto agli uomini, pensano di non essere all’altezza. Lei come vive tutto questo?
In generale credo che questo perfezionismo esista, ma non fa parte del mio modo di essere. Io sono stata educata come ‘essere umano’ per cui, se per esempio ho a disposizione qualche ora di tempo, preferisco passarla al parco con i miei figli, piuttosto che a mettere a posto la casa. Però mi rendo conto di essere un’eccezione. Ho mandato i miei figli a sette mesi al nido e non mi sono mai pentita. Molte donne patiscono la scelta di affidare i propri figli ai nonni, agli asili, e vivono male il fatto di non potersene curare in prima persona. Io ho sempre pensato che per me fossero importanti sia la carriera, sia la famiglia. Ritenendo entrambi questi aspetti rilevanti, ho messo in conto, per esempio, che non avrei mai potuto fare quattro figli e che non sarei mai diventata l’Ad di Shell a livello mondiale. È il progetto che deve essere chiaro. Come dicevo prima.
Però questo può essere discriminante. Perché l’uomo può fare carriera e avere figli; la donna molto più difficilmente.
Secondo me, una volta i ruoli erano più separati. Oggi rischia di essere discriminato anche l’uomo che vuole avere una famiglia e nello stesso tempo vuole fare carriera. Che poi sia socialmente più accettabile che un uomo veda di meno i suoi figli è assodato; che dal punto di vista individuale sia o possa essere un sacrificio, avendo un sistema alle spalle che lo fa percepire come una cosa giusta da fare, in un certo senso rende un po’ meno amara la pillola. Però secondo me anche per un uomo che ha voluto dei figli, non vederli o vederli poco rischia di essere ingiusto. Il problema per l’uomo è equivalente, nel senso che se vuole fare carriera e avere figli deve sperare di trovare una moglie che stia a casa con loro, mentre lui va a lavorare, magari in trasferta. Altrimenti, meglio abbandonare il progetto. Lo stesso si può rapportare alla situazione di una donna, con in più il peso di sbagliate abitudini culturali, o meglio dire, di veri e propri stereotipi.
L’azienda come struttura è un meccanismo maschile. Secondo lei, non esiste un modello aziendale di tipo femminile? Potrà esistere, in assoluto?
Per ora io non ne ho mai incontrato uno. Però, per esempio, nella mia azienda si sta lavorando in questo senso. C’è flessibilità sull’orario, possibilità di telelavoro; il mio gruppo è composto quasi esclusivamente da donne. La sfida ora è integrare, equilibrare i due modelli e tarare le carriere da percorrere in quanto donne, senza doversi per così dire ‘travestire’ da maschio. Per fare questo è necessario avere dei role model di riferimento validi, specialmente a livello manageriale. E uscire dall’idea che ‘diversità’ significhi solo operare una divisione ‘uomo-donna’. Ognuno di noi è diverso dagli altri, ha delle competenze, dei tratti personali che lo distinguono dagli altri. La diversità, secondo me, va affrontata in termini di integrazione.