L’ebbrezza della pausa pranzo
bree, figlio, lavoro, maternità, P&C
“Figli: una donna su tre non ritorna al lavoro”, “Culla e ufficio in conflitto”, “Mamme manager: rientro difficile in un caso su due”. Questi sono solo alcuni dei titoli comparsi recentemente sui nostri quotidiani. L’argomento viene trattato con assiduità; significa che non è più rimandabile. Quando andavamo a scuola, a fine anno, ci scattavano la foto di classe. Ora che siamo cresciuti, è l’Istat che ogni anno fotografa come siamo diventati. E, nella foto di quest’anno, i sorrisi sembrano un po’ sfocati. Lasciamo perdere il reddito delle famiglie –metà dei nuclei familiari vivono, o sopravvivono, con meno di 1.900 euro al mese– e veniamo al nostro tema: il lavoro femminile. Una donna su tre –si evince dal rapporto Istat– non ritorna al lavoro dopo la prima gravidanza. I motivi? Non riesce a far fronte agli impegni familiari. Risultato? Si incrementa la povertà delle famiglie. Ma finché i servizi a supporto delle famiglie non si allineeranno con le esigenze di chi lavora, il problema rimarrà irrisolto. Mi spiego: se la scuola alle 16,30 chiude i battenti e chi lavora in ufficio non riesce a spegnere il pc prima delle 18,30, come si fa? Certo, si può ricorrere ai nonni, se ci sono. O alle baby sitter. I cui costi orari raggiungono, almeno nel capoluogo lombardo, quotazioni da capogiro. Ecco che le mamme fanno due conti, e rimangono a casa. Come faccio sempre, mi confronto con amiche professioniste che vivono situazioni analoghe alla mia e a quelle di tante delle donne che devono ogni giorno affrontare il tema della conciliazione famiglia-carriera. Già, perché il problema della conciliazione ricade ancora in maniera preponderante su di noi. Inutile che ci nascondiamo. Allora cosa manca alle donne? “Semplice –mi racconta un’amica docente universitaria durante una delle nostre conversazioni– a noi manca una moglie”. Beh, saranno in tante ad averlo pensato, ma non c’è dubbio che sia così. Ci manca una persona cui fare affidamento ciecamente, che possa correre a scuola quando ti chiamano perché tuo figlio ha la febbre. Una volta c’era la sala medica, ti veniva la febbre, ti sbucciavi in cortile, c’era qualcuno pronto ad assisterti. Adesso no, dai un colpo di tosse di troppo e gli insegnanti chiamano la famiglia. Cioè, chiamano la mamma, che deve scapicollarsi a recuperare il pargolo. Mentre magari in quel momento è in aula per una lezione, o in aeroporto, o sta intervistando qualcuno. Ci manca una persona disponibile, totalmente, che ci aiuti a tenere le fila di tutto. Ecco perché tante rinunciano alla carriera. Perché, credo, non reggono questo affollamento di pensieri, incombenze, scadenze e responsabilità. Eppure è un gran peccato. Perché lavorare, oltre a contribuire alla costruzione della propria identità, può dare dei bei vantaggi. Giusto per alleggerire i toni, avete mai pensato alla pausa pranzo? Io no, ma la mattina, mentre mi lavo i denti, ascolto alla radio i sondaggi del professor Mannheimer che, recentemente, ha indagato cosa fa il lavoratore italiano durante la pausa pranzo. Alzo immediatamente il volume e, con lo spazzolino in una mano e il taccuino nell’altra, prendo appunti: c’è chi va in palestra, chi fa un corso di formazione, chi naviga in internet, chi fa la spesa (indovinate chi?!) e poi ci sono i ‘funamboli della pausa pranzo’ quelli che, tra le 13 e le 14, vanno a trovare l’amante. Mi sembra evidente che qui ci si riferisca in maniera preponderante ai colleghi maschi o alle donne che non hanno famiglia. È scontato che 60 minuti ‘funambolici’ siano più rilassanti che non schizzare come schegge impazzite tra ammorbidenti e acque minerali. Ecco un’altra validissima ragione per cui noi donne non dovremmo rinunciare alla carriera. Per sperimentare, almeno una volta, l’ebbrezza della ‘pausa pranzo funambolica’. E dimenticare, ogni tanto, la lista della spesa…